Nascere tra i vulcani, tra una popolazione che nel corso dei secoli ha esorcizzato la paura, significa avere il privilegio di sentire battere il cuore pulsante della Terra. Significa nascere nel fulcro della storia, quella storia che, in costante contatto con la morte e la vita, ha saputo far nascere il culto del mito, il rito e la sterminata simbologia legata ad esso.
Questa realtà storica, che rischia di perdersi con il propagarsi della fascinazione dell’effimero e della cultura del consumo, si fa sempre più lontana, quasi non fosse mai esistita, quasi fosse stata un sogno retto solamente da credenze e magie. La perdita della memoria primordiale trasforma la nostra esistenza in un Tabù.
La precarietà continua dovuta al dilagare del superfluo si scontra con la morfologia del territorio, anch’esso precario e la natura, in tutta la sua terribile potenza, ci ricorda che è nella sua energia esplosiva che sta il motore della vita. Avvicinandoci alle viscere della nostra terra e sentendoci in simbiosi con essa, parole come bradisismo, eruzione e terremoto fanno emergere come una eco incessante la parola “memoria”.
Il Vulcano, come afferma la Ottieri, “allena i suoi abitanti a vivere in una vacillante realtà sempre sull’orlo della dissolvenza, della metamorfosi, a riempire il vuoto al centro, il cratere della vita di ognuno, con l’immaginazione, trovando nell’invisibile il senso più vero dell’essere al mondo.” Allenamento, questo di cui si parla, utile ad affrontare anche la vita quotidiana al di fuori della morfologia di un territorio. Allenamento per sopravvivere alle “scosse” della situazione sociale e politica e ai costanti terremoti di uno Stato che sembra, anch’esso, sempre sul punto di esplodere ed annientare tutto.
Tabù si muove tra uno spazio di rappresentazione onirico e la realtà attuale. Da un lato rappresenta un viaggio nel puro esorcismo partenopeo, in un mondo dove si è testimoni del paradosso della natura, un mondo dove morte e vita convivono in stretta relazione. Dall’altro si fa manifesto di un grido di rivolta, un grido in cerca di una bocca. La ricerca di una condivisione che, attraverso l’assurdo della prosa e il rito del canto, mette in evidenza le realtà parossistiche di una società che non possiamo più sopportare.
Vulcano quindi come metafora di ben altri pericoli che minacciano il paese.
Nell’introduzione di “Una voce dal profondo” di Paolo Rumiz “L’autore sente una voce rauca che lo chiama dal fondo di un vulcano spento. Quel suono, simile a un lamento, gli ricorda che c’è una crepa che squarcia l’Italia dalla Sicilia al Friuli: quella dei terremoti”.
Tabù vuole ricordare che c’è anche un’altra crepa che sta squarciando l’Italia.
Come il Terribile della Natura di cui parla Rumiz, anche il Terribile dello stato di cose è diventato una normalità contro la quale attrezzarsi.
Il nuovo progetto artistico del Collettivo FUNA basa la sua ricerca sulla commistione dei linguaggi della danza, del teatro fisico, della sospensione aerea, della prosa e della musica.
400 metri di corde rosse invaderanno lo spazio scenico dando vita a nuove strutture circensi evocative e non convenzionali.